SANDI HILAL
ALESSANDRO PETTI
Architetti | Ricercatori
Il 28 dicembre 2023, presso lo studio di architettura ma0 di Roma, abbiamo realizzato la Prova d’ascolto n. 4 con gli architetti e ricercatori Sandi Hilal e Alessandro Petti, insigniti del Leone d’oro per il miglior partecipante alla Biennale Architettura 2023, “Per il loro impegno di lunga data teso a un profondo coinvolgimento politico con pratiche architettoniche e di apprendimento della decolonizzazione in Palestina e in Europa”.
La ricerca artistica e la pratica di DAAR (Decolonizing Architecture Art Research), fondata nel 2007 dagli architetti Sandi Hilal, Alessandro Petti e Eyal Weizman, si collocano tra architettura, arte, pedagogia e politica. Negli ultimi vent’anni i suoi condirettori, Hilal e Petti, hanno sviluppato una serie di progetti di ricerca ambiziosi a livello teorico e impegnati nella lotta per la giustizia e l’uguaglianza sul piano pratico. Nella loro esperienza, le mostre d’arte sono luoghi di esposizione e al tempo stesso di azione che si riversano in altri contesti attraverso la costruzione di strutture architettoniche, la creazione di ambienti di apprendimento critici, interventi che sfidano le narrazioni collettive dominanti, la produzione di nuovi immaginari politici, la formazione di spazi civici e la ridefinizione dei concetti.
Cement Tent, Al Madam, Sharjah, UAE (2023)
Ricostruzione di Al Nada, Gaza (2014-2020)
Al Madhafah – The Living Room, Boden (2016 – )
The Shu’fat Girls School, Gerusalemme Est, Palestina (2015)
The Tree School, Bahia (2014)
SCINTILLE
dialogo con Sandi Hilal
e Alessandro Petti
di Maria Nadotti
Riprendiamo qui parti della conversazione che introduce il libro-catalogo-archivio Permanent Temporariness (Art and Theory, Stoccolma 2019).
Si tratta di un dialogo – svoltosi dal 2 al 15 agosto 2018 a Beit Sahour, nella casa di Hilal e Petti – che percorre senza separarle la sfera del privato e del pubblico, del professionale e dell’intimo, del personale e del politico. Qualsiasi interpretazione che le separi, le contrapponga, ne escluda una per privilegiarne un’altra, non può che occultare la complessità e la contraddittorietà del reale ed essere dunque un’operazione di potere, non di verità e di svelamento.
Maria Nadotti: Da dove nasce l’esigenza di Permanent Temporariness, una retrospettiva e un libro che ricapitolano quindici anni della vostra vita passando cronologicamente in rassegna i progetti realizzati e, insieme ad essi, le condizioni materiali in cui si sono dati e le collaborazioni che li hanno resi possibili?
Sandi Hilal: Per me quest’esigenza nasce dalla decisione di lasciare la Palestina e DAAR (Decolonizing Architecture Art Residency), la struttura di ricerca e intervento sul campo da noi creata in questi anni a Beit Sahour. Daar in arabo significa casa. Ecco, per me partire ha voluto dire mettere a posto la ‘casa’ e affrontare il senso di perdita che si accompagna a ogni distacco. Non si può partire lasciando stanze e armadi in disordine: organizzarli è rassicurante, perché è l’annuncio di un possibile ritorno. In altre parole, questo libro è una transizione, un passaggio: mi serve per non perdere il passato, pur sapendo che non sarà mai più quello che ho lasciato, e a non permettere al dolore dell’abbandono di prevalere su una sensazione di enorme leggerezza.
Alessandro Petti: Io sentivo l’esigenza di prendere distanza dalla pratica. Qui in Palestina la trappola è quella di diventare un’organizzazione non governativa, una ‘macchina a fare’. Nel momento in cui DAAR ha cominciato a ricevere commissioni da fuori, abbiamo intuito che stavamo entrando in una fase a rischio. Non essere né artisti né architetti né ONG ci dava libertà di sperimentare. Con il progetto di Gaza, nel 2016, abbiamo avvertito il pericolo di chiuderci in una struttura precodificata, di fare solo le cose di cui eravamo sicuri.
MN: Un libro e una retrospettiva per fare i conti e voltare pagina? Ma scrivere è anche una conclusione…
AP: A questo paradosso siamo abituati. Anche nel 2011, quando abbiamo avviato Campus in Camps, avevamo capito che dovevamo fermarci per capire meglio, chiudere per poter fare il passaggio successivo. Nella fase attuale si trattava di ritirarsi dalla linea del fronte, di interrompere un ciclo decennale vissuto con la sensazione di fare grandi cose che richiedevano un impegno totale sul terreno. Io oscillo tra attivismo e riflessione, tra il desiderio di dare risposta ai problemi e alle urgenze del presente e l’ambizione di fare un lavoro sotterraneo indipendente dalle notizie del giorno. Per noi la Palestina è sempre stata una condizione, non un oggetto. Quando abbiamo scelto di venirci a vivere, abbiamo capito in fretta che non bastava ‘rappresentarla’, che non era sufficiente cercare di spiegarla all’osservatore distante, come avevamo cominciato a fare con Stateless Nation e con Road Map. Venuti ad abitare qui, le nostre esigenze fondamentali sono mutate: non ci rivolgevamo più all’Europa o a un generico fuori, tutto nasceva dalle nostre frequentazioni locali, la nostra realtà era qui.
MN: Potremmo dunque descrivere queste fasi o cicli come un muoversi dal fuori al dentro e oggi di nuovo al fuori, come una specie di zoom e contro-zoom, ma anche come una continuità giocata su un adeguamento costante della vostra storia personale e professionale alla storia collettiva? Forse oggi i paradigmi concettuali, il vocabolario politico, i metodi di lavoro da voi elaborati soprattutto nei campi profughi palestinesi nel corso degli ultimi anni esigono di misurarsi con quanto sta avvenendo altrove, in particolare nella fortezza Europa?
SH: È così. Il senso di perdita profonda, che per me si è accompagnato alla pur meditata decisione di lasciare la Palestina, in Svezia si sta trasformando a poco a poco in un lavoro di ‘ricostruzione’, in una nuova vita. Non è un caso che io stia cercando una mia personale continuità politica, concettuale e affettiva in un progetto cui ho dato inizio insieme a una coppia di rifugiati siriani e che ho intitolato Living Room, luogo dove esercitare da stranieri/esuli/rifugiati/migranti il ‘diritto all’ospitalità’. L’elaborazione del lutto, se così posso chiamarla, sta passando da una lenta e non solitaria presa di coscienza che quanto si è andato accumulando dentro di me può essere messo a frutto in una situazione che capisco meglio degli svedesi stessi proprio perché vengo da un altro mondo. Per riuscire a vedere limpidamente bisogna davvero guardare da fuori. Potrei dire che questo libro è il tentativo di mettere insieme le fasi, di chiudere aprendo. L’esperienza dello spaesamento può essere fertilissima.
AP: Oggi a me sta particolarmente a cuore un tema che abbiamo messo a fuoco con il progetto The Book of Exile: Quali sono le tecniche che permettono di sfuggire alla normalizzazione? Quando dico ‘messo a fuoco’ intendo dire che con quel progetto siamo arrivati a concettualizzarlo, anche se già anni prima era stato parte attiva della nostra decisione di trasferirci in Palestina. Di nuovo continuità e salti, anelli che si concatenano tra loro, passaggi dall’agire al comprendere a fondo le ragioni del proprio fare, dall’esperienza diretta alla sua teorizzazione e dunque a una sua possibile comunicazione e diffusione. Nel 2006 la ragione cogente del nostro metter su famiglia in Palestina è stata proprio che non volevamo essere ridotti a norma. La famiglia allargata di Sandi ci garantiva contro lo schema soffocante della famiglia nucleare e ci offriva la libertà di fare cose che in Europa non sarebbero state possibili.
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MN: Proviamo a immaginare insieme che il ‘diritto al ritorno’ dei profughi palestinesi uscisse dalla sua dimensione messianica e potesse d’un tratto essere esercitato, oppure che tutti i migranti e rifugiati che ‘premono’ ai confini dell’Europa venissero accolti come cittadini di pari grado, assimilati in quanto ‘uniformi o identici’. Per settant’anni i profughi palestinesi non si sono limitati ad aspettare un sempre più illusorio ritorno, adattandosi al ruolo di ‘vittime’ bisognose, dipendenti dagli aiuti esterni: hanno vissuto, sono morti, sono nati, hanno studiato e lavorato, quando hanno potuto hanno scelto di rimanere dentro o di andarsene, si sono dati strutture di autogoverno amministrativo e politico, hanno costruito servizi, luoghi di ritrovo, cimiteri in cui seppellire i propri cari. Oggi il campo profughi palestinese è una comunità viva e perfettamente cosciente di sé, non soltanto una piccola città povera e affollata tenuta in ostaggio da Israele, dall’Autorità Nazionale Palestinese, dalle istituzioni internazionali e dalla ‘benevolenza’ di varie ONG. Né gli ‘extracomunitari’ in arrivo in Europa sono una tabula rasa su cui inscrivere le nostre norme in nome di una presunta superiorità del modello di società occidentale.
AP: Oggi la cancellazione dei campi equivarrebbe a una seconda Nakba, perché nei campi sono cresciute e si sono formate generazioni di palestinesi. I loro ricordi e le loro esperienze, per mantenere la preziosa analogia con la condizione di chi migra oggi verso l’Europa, non possono evaporare né essere cancellati con un colpo di spugna. La nostra visione politica e progettuale abbraccia proprio questa dimensione, puntando sulla possibilità di alleanze o perlomeno identificazioni inedite e non solo a senso unico. Pensiamo alle Primavere arabe e a ciò che hanno prodotto in occidente: per la prima volta si è creata una reciprocità vera.
L’invenzione politica oggi consiste proprio nell’individuare e coltivare queste possibili identificazioni. Cosa impedisce ai giovani spagnoli o greci poveri, per esempio, di riconoscersi nei migranti poveri? O l’assoluta precarietà dei lavoratori stranieri a Abu Dabi, che anche dopo decenni di permanenza non sono legalmente a casa loro, non è forse analoga a quella dei campi palestinesi? La condizione della Palestina può aiutarti a capire la tua. Non è la solidarietà che ci interessa, ma la comprensione dei nessi. Solo stabilendo alleanze si evitano le guerre tra poveri. Oggi in Europa si sta costruendo un muro di paranoia contro i migranti, usati politicamente come minaccia a un ordine inesistente. Sono questi i collegamenti che vogliamo fare. Permanent Temporariness prefigura come si vive fuori dallo Stato-nazione. Nei campi il concetto di ‘comune’, di una dimensione che sfugge al controllo dello stato e al binomio pubblico/privato, lo si capisce bene. Se dovessimo dare un nome al nostro lavoro di questi anni in Palestina e a quello che stiamo avviando in Europa potremmo parlare di ‘strategie di decolonizzazione’. Non c’è soluzione di continuità, perché oggi i corpi colonizzati sono dentro la metropoli e con la loro sola presenza compiono un atto di rivendicazione che fa esplodere un privilegio basato su cinquecento anni di sfruttamento, razzismo, schiavismo.
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MN: Come si vede all’inizio di ciascuno dei diciotto capitoli del libro, parte cruciale del vostro lavoro su ogni specifico progetto è stata una “ridefinizione delle parole”, l’individuazione di un vocabolario condiviso ripulito da ogni ambiguità, bonificato.
AP: I progetti, per non essere chiusi in scatole non comunicanti con tanto di istruzioni per l’uso, vanno attivati. E l’attivazione non può che avvenire attraverso una serie di parole/concetto, che abbiamo individuato nel corso degli anni e del nostro lavoro di gruppo. La trasformazione del pensiero, quella che chiamiamo la decolonizzazione della mente, non può che passare da una critica serrata all’uso che viene fatto di certe parole, alla manomissione cui sono state sottoposte, e, parallelamente, da un processo di riappropriazione o di rigetto di termini svuotati del loro senso originario. La spina dorsale del nostro lavoro di Campus in Camps è stata proprio la creazione di un vocabolario comune composto di parole ‘limpide’ e sgombro di termini colonizzati come ‘aiuto’ o ‘solidarietà’. Ridefinire il nostro terreno semantico ci ha permesso inoltre di mettere in risonanza più lingue e dunque diverse tradizioni culturali. Le parole, quando non sono gusci vuoti, si portano dietro saperi preziosi che vanno comunicati e scambiati affinché, mescolandosi in un processo di vera e propria osmosi, possano diffondersi e rigenerarsi.
SH: Prendiamo il termine arabo madafa, che all’interno della casa designa lo spazio destinato a ricevere gli ospiti. Nelle culture arabe sta a simboleggiare il concetto di ospitalità, di apertura, perché madafa è uno spazio intermedio tra il privato e il pubblico, tra l’intimo e il sociale. Vi si esercita il dovere dell’ospitalità, ma anche il diritto a ospitare. L’abbiamo individuata come uno dei cardini del nostro vocabolario concettuale, perché mette a tema la natura bifronte del rapporto di ospitalità e lo interroga facendo vibrare le relazioni sociali e problematizzandole. È uno dei lemmi paradigmatici su cui si fonda e continuerà a fondarsi il nostro lavoro, perché postula una soggettivazione fluida, una messa in discussione continua dell’appartenenza dei luoghi a specifici soggetti e di specifici soggetti a determinati luoghi e ruoli. Ospite, in arabo, significa ‘aggiunta’, non ‘assimilazione’, un concetto che oggi ci aiuta a confutare l’iperpianificazione statale svedese, la sua visione a senso unico.
MN: Un esempio luminoso dell’uso che avete fatto nel corso del tempo di questa categoria concettuale è racchiuso nel progetto intitolato The Tree School, da voi definito “un dispositivo che crea un territorio fisico e metaforico comune dove le idee e le azioni scaturiscono dalla discussione critica, libera e indipendente tra i partecipanti”. Tutto nasce nel 2015 a Bahia, in Brasile, per poi riproporsi in molte altre situazioni, dalla stessa Palestina al Messico, sul terreno e in diversi spazi museali. Quell’esperienza, oltre a proporre una riflessione sulle condizioni e le modalità della relazione pedagogica, postula la necessità di creare una zona franca in cui quella relazione possa costruirsi in piena reciprocità, dove tutti i partecipanti siano ugualmente appartenenti ed estranei al luogo temporaneamente designato allo scambio.
SH: La verifica definitiva di quella parola/concetto individuata nell’esperienza collettiva di Campus in Camps l’abbiamo avuta non a caso molto lontano dalla Palestina e dall’Europa, a Bahia, in riva al mare, dove tutti i partecipanti alla Tree School si sono trasferiti insieme a noi per quaranta giorni. Nessuno era a casa sua, nessuno era padrone del luogo, eravamo tutti ‘ospiti’ di pari grado, al contempo ospitanti e ospitati. Ogni volta che si riesce a creare un setting di questo tipo, le dinamiche di potere si disattivano a favore di una circolarità e di una curiosità a più direzioni.
AP: Nei campi, che sono stati per noi un formidabile luogo di apprendimento, abbiamo capito la dimensione della porosità, della malleabilità, che cosa significhi essere fuori dalle regole. Lì l’appartenenza non equivale a ownership. Il campo è un laboratorio in cui si scopre come vivere senza possedere, come riutilizzare le cose senza esserne proprietari.
SH: La creazione di un dizionario collettivo legato a una situazione molto specifica portava a azioni dirette, era un’operazione di base che permetteva di contrapporsi a concetti arrivati dall’esterno e non dalla propria esperienza. Ci siamo messi a fare l’elenco delle parole da smantellare o da scartare (cittadinanza, sostenibilità, attivismo…) e, attraverso un progressivo processo di unlearning, ci siamo scrollati di dosso la sudditanza generata dalla loro opacità e liberati dalla loro retorica. Abbiamo scelto di non giocare a ping pong, bensì a scacchi. Abbiamo capito, seguendo l’intuizione di Giorgio Agamben, che le persone non reagiscono al potere, ma creano mondi che poi il potere cerca di cooptare. Nei campi palestinesi questo è evidentissimo: i ragazzi che sono già andati a vivere fuori ci tornano perché lo riconoscono come luogo d’origine e centro politico, o in occasione dei matrimoni e dei funerali. Per l’intero Medio Oriente il campo è diventato il vero e unico cuore politico, tanto che in Libano la risposta governativa è stata di chiuderli, consentendo di accedervi solo con permessi speciali. Chiusi e vigilati come prigioni non potevano nuocere. Qui in Palestina non è successo, qui i campi godono di uno statuto di extraterritorialità che produce la porosità di cui diceva Alessandro, la capacità del campo di influenzare la città, proprio perché i suoi residenti possono andare e venire. La bidirezionalità prevede un dentro e un fuori riconoscibili e valicabili. Noi non volevamo eliminare il confine del campo, ma utilizzarlo in modo diverso, lavorando sull’eccezionalità come potenzialità. Nei campi abbiamo fatto cose che la città non ci avrebbe consentito.
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MN: Il tema dell’ospitalità come un ‘fare spazio all’altro’ non in base a categorie etiche o imperativi assoluti, ma semplicemente prendendo atto della temporalità e circolarità del bisogno, percorre la vostra intera ricerca. Appare nella vostra Cement Tent così come oggi in Living room.
SH: Per noi la Tenda di cemento è lo spazio originario in cui si sono creati storicamente i codici dell’ospitalità. All’‘ospitalità incondizionata’, al di sopra delle leggi dello Stato, invocata da Derrida noi contrapponiamo una ragione cogente più laica: nel deserto la tenda è uno strumento di sopravvivenza. Se non ne disponi, ne va della tua vita. E un giorno puoi essere host, l’altro guest. Derrida fa riferimento ai beduini, ma non ha compreso appieno l’urgenza di questo loro costume, che noi abbiamo fatto nostro. Il suo è un percorso etico, il nostro è pratico, dettato cioè dalla necessità. Nel mondo arabo il contratto sociale si fonda sul bisogno reciproco, potremmo dire sulla mutua convenienza, non su un dover essere. Ospitare ti rende attivo nella società e crea un obbligo biunivoco. È vantaggioso per tutti. In occidente è sempre più evidente che il diritto di ospitare è in appalto allo Stato. A noi interessa mettere in discussione questo monopolio e sottolineare che, quando si erodono i diritti degli altri, si inizia ad erodere i propri. Il cittadino che si riappropria del diritto di ospitare o il quartiere che si riappropria del diritto di decidere chi ospita smette di delegare allo stato e, così facendo, si attiva smascherando l’industria statale che si nasconde dietro ‘l’aiuto ai bisognosi’, resi sempre più passivi proprio dall’ospitalità a senso unico.
MN: Spingendo oltre questo ragionamento e de-metaforizzando la vostra Cement Tent si arriva a un paradosso: l’unico modo per essere se stessi e compiersi come soggetti politici è sentirsi ‘altro’ nel luogo in cui si vive, a disagio nella realtà in cui si è, stranieri in patria. Il che comporta un duplice movimento o strategia: collocarsi senza però uniformarsi, praticando l’arte sottile della non appartenenza e usando risolutamente lo strumento dell’immaginazione. Come si riflette questo nel vostro lavoro di architetti/artisti?
AP: Nel rifiuto della fissazione dei ruoli e nella ricerca di una congruenza che non ha niente a che vedere con la capitalizzazione e la solidificazione. Se non si è estremamente vigili, si rischia di continuo di cadere nel comfort inerziale della stabilità, della linearità o, peggio, della ripetizione. Decostruire i ruoli, optare per l’esilio e il displacement, sabotare dall’interno il proprio lavoro, profanare le soglie tra discipline diverse (il limine tra arte e architettura, tra storia e politica, tra mio e tuo), ci hanno finora consentito di non cristallizzarci e di non imprigionarci con le nostre stesse mani. Sandi, che non ha mai avuto paura di negoziare con il potere e che forse ne è un po’ sedotta, oggi in Svezia non può usare il suo know-how ed è in bilico tra smarrimento e libertà.
SH: Poiché il nostro lavoro è sempre stato strettamente legato alle nostre scelte di coppia, al modello di vita che insieme abbiamo concepito fondendo due forme culturali diverse e creandone una inedita, oggi la mia paura è che il nostro lavoro possa perdere la meravigliosa forza che veniva dal nostro fare insieme. In Europa Alessandro, che io ho sempre considerato la ‘mente’ del nostro comune operare, ha più potere di me, come uomo, come europeo e come accademico. In Palestina la mia maggiore adesione alla realtà, la mia capacità di buttarmi nei progetti lasciando a lui il compito di sistematizzare, collegare, teorizzare, creava un equilibrio perfetto, un vantaggio reciproco, che oggi ancora non intravedo. La western knowledge, i suoi linguaggi e le sue gerarchie mi sono profondamente estranei: io arrivo a conoscere facendo, istintivamente, nella relazione con gli altri. So che la realtà è spesso sporca e non cerco la perfezione, mi accontento di capire quel che si può fare e mi disturba l’astrattezza. Sono realista, mentre Alessandro è idealista. Forse oggi abbiamo voglia di interrompere la fusione, continuando a lavorare insieme con dinamiche diverse. Il problema è non viverlo come un tradimento o un abbandono.
AP: Sandi si è sempre tuffata nel fare, poi io ci lavoravo per mesi: un meccanismo che funzionava a perfezione, ma da cui abbiamo capito entrambi che dovevamo guardarci. Le dinamiche troppo oliate rischiano di diventare inerziali. La complementarità rischia di far smarrire il centro di se stessi, di indurre a perdersi nell’alterità rappresentata dalla persona che hai accanto. Sandi tende all’inclusione, mentre io sento la necessità di creare una distanza produttiva per entrambi.
Questa retrospettiva e questo libro-catalogo sono un modo di rifondarci, ciascuno dei due con le proprie potenzialità, i propri limiti e le proprie paure. Il progetto del Living Room è soprattutto una creatura di Sandi, una sperimentazione che nasce in modo diretto dalla sua biografia. Mentre io ho voglia di riportare in Europa il discorso della decolonizzazione e di recuperare una dimensione storica che permetta di ragionare sul riutilizzo di spazi originariamente destinati a altre funzioni (come già avevamo fatto con Eyal Weizman per i progetti di Jabel Tawil/P’sagot e di Oush Grab) e sul rapporto tra metropoli e periferia, metropoli e colonia. Ecco perché ho messo al centro della mia ricerca attuale una sorta di prosecuzione di Italian Ghosts e di Refugee Heritage. Mi interessa capire come vengono appropriate e riutilizzate le architetture moderniste dell’Italia mussoliniana, sul suolo italiano e nelle ex-colonie italiane in Africa. Insieme agli studenti postgraduate che seguono il mio corso in Svezia stiamo indagando il paradosso di una città come Asmara, capitale dell’Eritrea, una piccola Roma dichiarata patrimonio dell’umanità dall’UNESCO e trasformatasi in meta turistica grazie ai suoi splendidi edifici coloniali.
La storia che mi sta a cuore è piena di interrogativi: chi ha il diritto di utilizzare quegli edifici? Il colonialismo è finito o no? Come è avvenuto il transito? Come sono riuscite a passare certe cose, come si sono trasformate nel tempo? Che nessi ci sono tra il passato e il presente? Cos’è che permette alle cose di cambiare di segno? Qual è il momento della loro riconversione? Quali forze entrano in campo? Quali mediazioni, negoziazioni, compromessi sono inevitabili? Sì, oggi a me interessa lavorare su queste storie mutilate, per far esplodere le contraddizioni e disinnescare amnesie e rimozioni.
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MN: Il titolo del vostro libro e della vostra retrospettiva poggia su una metafora temporale, permanent temporariness: smentita di una concezione lineare del tempo, non sedimentazione, intermittenza, assunzione della provvisorietà come germe di una possibile trasformazione politica. I progetti di cui questo volume dà conto non si sommano e non si traducono in sistema: ciascuno porta all’altro, avanti e indietro, ma anche fuori, qui e lì, e tuttavia né qui né lì, altrove. Il presente dell’azione, pur nella sua assoluta specificità, è dunque anche una postazione – connessa, comunicante, cangiante – entro uno spazio orizzontale reticolare rischiarato da bagliori fugaci che si riverberano all’esterno o che da fuori lo illuminano.
AP: Il problema è proprio questo: come dare continuità al mondo che desideriamo e che di tanto in tanto viene acceso da una scintilla; come far durare l’intensità di quei momenti senza bruciarsi; come dare forma all’eccezionalità senza riportarla al quotidiano; come fare in modo che momenti di creatività straordinaria come la rivolta di Tahrir Square al Cairo perdurino nel tempo e ispirino/contagino altri luoghi e altre situazioni; come far sì che la luce prodotta da una determinata scintilla si propaghi il più lontano possibile, illuminando altri territori. O, per ritornare a noi, come astrarre la lezione della Palestina rinunciando alla volontà violenta di spiegare il mondo in base alle proprie esclusive categorie; come collegare e non restare isolati nei nostri singoli problemi.
MN: Questa nuova metafora, spaziale e temporale insieme, che affida alla fugacità e intermittenza della luce il compito di propagare saperi ed esperienze locali, si basa sul principio della moltiplicazione e dell’induzione reciproca, sulla capacità di connettere e di fare propria anche la memoria di eventi di cui non siamo stati protagonisti diretti. Comporta altresì una formidabile capacità di muoversi al buio, di continuare a camminare anche quando si è immersi nelle tenebre e la luce dell’ultima scintilla si è spenta. Che sensi sono necessari per questa pratica notturna, per questo ‘nel frattempo’ che è la dimensione reale della storia e dei grandi mutamenti che si preparano senza eccezione nell’oscurità?
SH: Le scintille non necessariamente si spengono. Ad alimentarle è stata per me in questi anni la presenza di un’altra persona amata con cui volevo stare anche se venivamo da mondi diversi. L’unica possibilità per Alessandro e per me, appartenenti a culture, lingue, famiglie, ‘prigioni’ diverse, era mantenerle accese. Come? Per quanto mi riguarda, grazie alla consapevolezza che la luce non è data, ma va suscitata e mantenuta in vita, pazientemente e con tenacia, ricordando e immaginando: una sorta di istinto amoroso, di intuito fisico, come se fosse il mio corpo a parlare, a dirmi in che direzione andare.
AP: Dopo quei momenti di intensità assoluta che coincidono con la piena luce prodotta dai lampi/scintille cosa rimane? La coscienza delle cose. La vera permanenza è lì. Lo strumento per muoversi al buio è quello.
Si veda il sito di DAAR
da cui abbiamo tratto, per gentile concessione dei suoi creatori,
le immagini qui riprodotte.
Alla loro pratica è andata affiancandosi la produzione di una serie di libri.
Riutilizzando, utilizzando in modo imprevisto, reindirizzando le linee guida e i criteri del Patrimonio Mondiale UNESCO, il libro-dossier Refugee Heritage (Art and Theory, Stoccolma 2021) contesta le definizioni dominanti di patrimonio e le narrazioni mainstream, proponendo invece l’esilio come prospettiva radicale che può portarci oltre i limiti dello Stato-nazione. Permanent Temporariness (Art and Theory, Stoccolma 2019) è un libro-catalogo che dà conto di quindici anni di ricerca e sperimentazione all’interno e contro la condizione della provvisorietà permanente. In Architecture after Revolution (Sternberg Berlin 2013), insieme all’architetto Eyal Weizman, invitano lettrici e lettori a ripensare le lotte odierne per la giustizia e l’uguaglianza non solo dalla prospettiva storica della rivoluzione, ma anche da quella di una lotta continua per la decolonizzazione, presentando una serie di progetti che cercano di immaginare “il mattino dopo la rivoluzione”.